OPERE, ANNI NOVANTA
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“Densi, i grigi, con la forza delle stelle scure, verso il loro misterioso dove. Non nero.”
Francesca Sommero 1991
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Che Marco Tronci abbia potuto inoltrarsi tra gli intarsi delle architetture padane fatte di argilla cotta e di intonaci allo sfrattazzo – secondo la maniera degli insubri – non meraviglia. Non meraviglia, soprattutto per uno come lui che padano non è, ma che padano in qualche modo diventa.
Non lo è d’origine; poi per lunga residenza lagunare Marco Tronci un padano lo diventa, per quanto di mezza costa, di laguna appunto. E quel principio di ordine spaziale che insegue – l’aria piena di luce che si riflette nella sfera terracquea che diventa onice e poi un lapis denso la notte – forse sta tutto dentro al cosmo complesso delle materie alle quali nell’uso artistico s’è fatto carico della equivoca funzione di tramutare luce e colore.
Immagino che la contaminazione lagunare con lo spazio della Biennale, l’Accademia e la Punta
della Dogana con gli antichi magazzini del sale davanti agli occhi, abbiano detto qualcosa a questo giovane artista, orientandone la formazione. Alludo a quel colmo di luce che ti arriva tra la sfera apollinea della Salute e il San Giorgio sulla frangia palladiana della Serenissima; dal quale si può essere abbagliati, tanto da rifugiarsi nella penombra invisibile di San Giorgio degli Schiavoni, ricercando la quiete della modesta solitudine gerominiana che è compostezza di vedute geometriche di un precedente palladiano che è quello carpaccesco. Perché dico questo? Perché nelle endiadi cromaticomateriche di Tronci si consuma questa dialettica tra materia e luce, in un’irta dimensione che ha più di un coefficiente.
Intanto osserviamo che Tronci ha preferito andare alla ricerca di una luce diversa. Abbandonata quella diurna del presente, ricerca quella reticente della storia.
Tronci mi dà l’idea di spiare il tempo, in quella postura che è di quanti si aspettano risposte per la materia. E interrogano la luce (l’anti-materia?); quella che ha dinnanzi e poi nella situazione ambientale del suo negativo: il silenzio apparente dell’oscuro (anti-luce e perciò materia?).
Atteggiamento critico che ha indotto a pensare che l’informale, prima e dopo la crisi della forma, possa essere innanzitutto una “ reductio ad unum “ del palinsesto di luce che gravita sullo specchio della nostra cultura: momento di crisi, senza superamento, forse, sempre che non lo si ricerchi. E quanto alla ricerca essa s’è innanzitutto orientata a ricercarli fuori del presente, ma in funzione sincronica, non diacronica, e perciò nella storia (passato o futuro). E qui sta l’originalità di Tronci. Tronci non s’adegua a questa legge, ma la sfiora, come vedremo, mettendosi alla ricerca di ulteriori risposte.
La metafisica della luce del resto è tutta da condividersi tra Proclo, Pseudo-Dionigi Areopagita, Plotino e i mosaicisti tra Bisanzio, Ravenna e la città di San Marco.
Questa occasione, di entrare nel vivo della terraferma di Parma, la terra ferma dell’Eridano Tronci l’ha perseguita con pervicacia. Lo interessava lo spazio, il clima, la città. Caso strano: le sue nebbie. La mostra di Tronci si tiene al colmo della stagione più caliginosa che queste terre garantiscano, l’autunno oltre Ognissanti; quando anche il muro trasuda dell’umidità acquea. E pone le premesse per quelle trasformazioni materiche che i solstizi compiranno attraverso carbonatazioni e solfatazioni. Sino a disegnare quei circuiti scomposti e imprevedibili che anche sulle materie degli uomini e non solo sulle pietre (anzi in primo luogo su quelle degli uomini) lasciano l’impronta degli anni: gli intonaci, le arenarie lavorate, i marmi levigati e patinati. Un lavorio lento, più lento di quello dell’acqua, un lavorio che è fatto di tempo, e poi di addizioni di forze eoliche e termiche, luminari e cromatiche, solari e seleniche. Il giorno e la notte, le stagioni fissate sulla lama di luce che scorre come un laser su di una sfera.
Ora, lo studio di questi avvenimenti nella polvere della materia è una avventura nuova, extra lagus, sia detto alla latina o mediolatina, giacchè quello di Tronci è un gioco dia-cronico.
Sono convinto. Per Tronci che è uno spirito naturalmente, congenitamente adriatico, l’occasione di Parma è stata la risalita, o se preferite, la discesa alle Madri. Ci fu una accolta di pittori adriatici che si spinse lungo le terre padane tra il XIII e il XIV, predicando un vangelo di costa, con figure fatte di tempera miscelata alle calci, riportate alla piatta dimensione della visione assoluta, dogmatica. Maniera adriatica che per complessi rinvii sotto costa alpina (come si complicano i fatti semplici!) arriva sino a decorare lo spazio infinitesimale del cielo sesquipedale del Battistero dell’Aurea Parma liberatasi dall’assillo federiciano.
Sarebbe facile dare la colpa al Po ed alle Elidi che lì piansero il tuffo dall’alto del loro fratello!
Sono convinto che la luce eridania del secondo mondo adriatico di Tronci lo ha costretto a ritornare sulle terre non combuste.
Tronci sta scoprendo che non ci si salva solo a Torcello. E che i Cenobi furono oltre che in Laguna anche tra Bobbio e Luxeuil.
Le grandi tele di Tronci sono diventate a Parma nella revisione settecentesca della cenobitica chiesa benedettina del Mille le pale degli altari sottratti al tempo. Spazio di forme incombuste ove opera il luogo della terra; luogo di confronto irrisolto tra materia e luce, tra sostanza e forma, luna e sol, il giorno e il suo contrario. Sarebbe da aggiungere teologia apofatica.
L’endiadi si riapre all’antitesi, anzi alla premessa del sillogismo.
Senza sospettarlo Tronci si è piegato entro il cosmo antico della prima chiesa che era quella benedettina del San Paolo di Parma. Cenobio femminile, voluto in Parma dall’imperatore e da Sigifredo II, il vescovo del tempo.
Tronci risale il filatterio delle madri sante e nello spazio installato ricolloca la materia. La Mater Materia.
A cadenza. Parti del corpo, forse un sudario. Tela trattata con le parti che danno consistenza al persistere degli uomini nello spazio, parti di un tutto, le loro materie elaborate dalle mani, dalle parti del loro corpo.
Il naòs, luogo sacro, è il residuo adriatico di questo clima contenuto entro la metafora dello spazio-storia. Luci che si intingono di materia. Esercizio che si attua nella presenza concertata degli uomini.
Materia che non rivive. E’ sospesa come una antica pala.
Religiosamente in attesa. Mater Matuta (in tal caso anche forza primigenia e genitiva).
Il movimento? C’è. E’ il suono. L’accorgimento meccanico, anni sessanta, anni settanta, anni ottanta. Ora è il suono. Novità? In parte. Importa l’atmosfera. Dotta? Incerta? No. In dubbio. Quelle luci fioche mi ricordano certi fuochi nella notte, quella intensa, umida spessa dei noviluni.
Rispetto l’aniconismo di Leone Tesauro, prevale la questione tra iconico e aniconico (penso a Rosario Assunto) come scelta assolutamente soggettiva e personale compiuta dall’artista. Spazi dove il forme-informe da Fautrier, sino a Vedova, a Tapies, in poi (Burri è quasi un pleonasmo). L’informale coincide con la libertà. Almeno per un attimo quello della sperimentazione.
Allora Tronci mette in rapporto la questione sperimentale dell’arte contemporanea con la forza della storia.
Questa risalita alle madri nell’informe padania dei misteri arcangeliani, fatti di sere trascorse a svoltare l’angolo di una strada in un concentrato di pulviscolo, di nebbia, di intonaci gretti, essudati, di lampioni dimessi, scortecciati dalla ruggine; sere di informi ombre e di parenetiche dissertazioni, di bizantinissimi soliloqui musivi; di lunghi motteggi, di passi nel silenzio. Caroli, Flavio, mi ha insegnato qualcosa che tengo presente: un appunto sul tavolino di ciliegio. Le sere d’inverno nella Padania portano il senso del mistero e fiumane di materia. Tra un lago padano e uno schermo cinematografico, guadagnato tra la nebbia. Anch’esso un lenzuolo, una tela bianca che si riempie del grigio tempera d’una materia apparente, vivificata dalla luce.
Le opere di Tronci trovano spazio nella quinta dimensione del suono. Tempo, spazio-tridimensione, suono.
L’adattamento sonoro del neuma benedettino è il movimento unico lento, sordo, che riempie la riedizione muraria della processione liturgica. Gregoriano. La neumatica è paratattica come il sentire orientale ultraadriatico.
Non v’è parentela se non di sospensioni. Il neuma del silenzio, che doveva diventare poi un motivo umanistico, di alta speculazione, è il complemento del canto fermo, non la sua antitesi.
Quelle sospensioni di luce e di suono e lo spazio aperto del canto fermo mi hanno rinviato alla scena adriatica di un artista parmense ma operante a Roma: le chiese, sei, sette che s’avvicinano sull’acqua adriatica di Francesco Barilli; hanno il neuma della riforma orientale. Cantus firmus, con la benedizione di Tonino Guerra.
Il canto fermo muove l’aria nella staticità della materia. La liturgia non consuma il rito; la materia svelata dall’incuria radente della luce rimane un positivo-negativo dello spazio. Puoi crederci e allora saranno atti positivi. Puoi non crederci e allora saranno i luoghi della pelle della storia, quelli che essa lascia come residuo di se stesso. La storia come la scienza è un serpente che cambia pelle. L’involucro residuo di squame è quella crisalide sottilissima che rimane delle azioni degli uomini, impolverata, disidratata, apparentemente inutile.
Attraverso la teologia negativa definisci la materia. Il suono fermo è come il respiro, fatto anche dei neumi del silenzio: flatus vocis; flatus Divini: e la terra divenne carne.
Tronci risale la terraferma, se ne impasta le mani. Ha la capacità di sfidare la speculazione senza cadere nell’estetismo; dimostra forza nello sfuggirne. Quando è facile lasciare l’orma, il segno, la firma. Ma se c’è cosa insincera in questo processo è il cedere allo specchio.
Non esiste riflesso nella speculazione pura. E la materia precede lo specchio. La terra matrice è simbolo. Per questo Tronci si pone al centro di questo traguardo di pale iscritte nella perduta sacralità di una chiesa sconfessata e ritenuta ancora in vita nella sua materia. Ricerca l’altra parte del sùn-bòlon.
L’Etre e le Néant. Può essere una filosofia semplice tra le più semplici. Ma quella da cui partire, ripartire; essa è quella del ritorno, dell’eterno ritorno.
Nella terra matrice che è la forma non formata, Tronci compie il primo tratto della ricerca delle madri. Pone le basi per scendere più a fondo. La scoperta dell’artificio della voce, del suono formato, che non è solo materia-rumore, ma rumore ricondotto a ritmo, a unità, ad armonia, lo abilita allo sfondamento della materia. Non conosco gli ultimi lavori.
Ma non mi sorprenderebbe che possano essere padani.
Terre e madri. Me li vedo come l’unica strada da intraprendersi. Ma non vorrei fare anticipazioni. Mi interesserà verificare se la previsione verrà confermata.
Per quanto mi riguarda non è quel traguardo che decide sulla maturità di questo artista.
Si guardi l’intensità di questa lettura di San Ludovico di Parma. Si osservi la sua coerenza. La proprietà del linguaggio. L’intensità del progetto, che non teme l’ovvietà delle contraddizioni. E per me, a dispetto di quanti non credono nei connotati dell’espressione, sono sufficienti per distinguere la ricerca e il suo parente, che è l’esperimento, dal piacere suasorio, ma di scarso respiro, dell’arte assunta come puro pretesto per esercizi cerebrali.
Tronci ha scelto di dialogare con la storia. I tempi lunghi, neumatici, della storia. E del pendolo narrante del tempo ha inteso e intende, intuire o captare il tenace e brividente respiro.
Mater Materia & Mater Matuta in Marco Tronci
ovvero
Terre e madri in Marco Tronci
Francesco Barocelli
Conservatore Patrimonio Artistico Gallerie Musei Parma 1997/1998
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In un’epoca contrassegnata dal virtuale, dove è sufficiente una leggera pressione della nostra mano per potersi ritrovare dappertutto, alla scoperta dei cosiddetti “non luoghi”, la riappropriazione di uno spazio concreto da parte di un artista assume l’aura di un atto che definirei quasi sacro. Siamo totalmente abituati, ogni giorno, ad usufruire dei molteplici spazi che ci attorniano, che non ci soffermiamo più a pensare alla loro struttura, al gioco di armonie e di elementi che concorrono a creare una specie di opera musicale che coinvolge lo spettatore nella sua costruzione architettonica.
Per questo motivo, ritengo che l’intervento di Marco Tronci nella Chiesa di San Ludovico a Parma, sia un gesto coraggioso e di estremo rispetto. Infatti, Tronci in questo contesto ha cercato di ridare alla chiesa, per molti anni adibita a centrale elettrica e poi abbandonata, la sua antica funzione attraverso un’interpretazione in chiave contemporanea, dando vita con le sue opere al percorso che il fedele doveva intraprendere per potersi umilmente confrontare con la divinità. I sei archi paralleli, che sono un simbolo del ritmico cammino che accompagnava il credente in un crescendo fino all’altare, vengono rivalutati da Marco Tronci con sei grandi tele parallele, collocate per l’appunto nelle nicchie, dove assistiamo ad una graduale materializzazione della sostanza. I corrugamenti dei suoi nuclei, i solchi che feriscono la superficie delle sue terre, da una iniziale drammatica pregnanza diventano sempre meno percettibili, fino a quasi scomparire, lasciando una piccola traccia , un segno che dalla concretezza sembra mutare e coniugarsi alla spiritualità latente del luogo, per concludersi con una grande tela verticale, monocroma, che, quasi fosse un monolito, suggerisce la presenza di qualche cosa di indefinito, ma di un’incredibile potenza.
Nel buio che avvolge lo spazio, il visitatore prosegue la sua visita nella parte laterale della chiesa, quella che ci introduce al sacello, dove è stata situata un’opera costituita da una sottile pellicola di cemento solcata da alcune impercettibili venature che convergono ad una ciotola, raccogliendo delle inestinguibili gocce salate: le lacrime. “Il grande pianto”, è il titolo di questo lavoro, che nello ieratico silenzio della chiesa emette un muto singhiozzo che umilmente si propaga in tutto lo spazio fino a raggiungere il sacello dove troviamo rovesciato sul pavimento un antico bacile in rame contenente del sale. Di fronte a questo lavoro si ha la sensazione di vedere tutte le lacrime di questo mondo condensate in questa massa di sale, per testimoniare quel dolore infinito racchiuso tra le fitte, tra gli interstizi della terra e che trova la sua catarsi in questa trasformazione. Una materia che nasce dalla sofferenza ma che risulterà fondamentale come catalizzatore per d are vita, a nuovi processi, a nuove mutazioni, dove l’elemento inizialmente grezzo e terreno potrà elevarsi alle sfere spirituali.
Marco Tronci è un artista che da anni opera con dei materiali come la terra, il cemento creando dei lavori dove questi mezzi poveri e primari, rivivono con una certa dignità manifestando la loro lenta e dolorosa metamorfosi. Infatti, le superfici delle sue tele sono solcate da profonde rughe che convogliano al centro di un nucleo, nel quale la materia sembra inabissarsi per contemporaneamente riemergere sulla superficie.
Un altro aspetto del lavoro di Tronci consiste nell’operare in spazi caratterizzati da una propria storia, in questo caso l’artista è costretto a confrontarsi con l’architettura del luogo e con tutto ciò che questo implica. Una sfida non indifferente, che però l’artista puntualmente cerca di cogliere, in modo da creare dei lavori che possano convivere con il luogo, arrivando a volte ad una simbiosi, dove lo spazio si carica dell’energia delle opere poiché viene ricostruito da queste e attraverso la loro presenza, muta anche la sua connotazione iniziale: una vera e propria metamorfosi
Aurora Fonda per la mostra “Lungo grigio nere lande deserte”, Chiesa di San Ludovico, Parma 1997
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